"Un sabato italiano" è un album decisamente atipico per il momento in cui viene pubblicato e per il mercato italiano.
La sua chiara impronta jazz-swing si rifà ad un genere musicale che non veniva preso in considerazione da autori, interpreti e tantomeno dalle case discografiche, in quanto considerato "non commerciale" e destinato a pochi eletti specializzati. Non è inquadrabile né nel pop più commerciale né nel consolidato filone dei cantautori. E sicuramente non è rock, anche se Caputo ammette: “In quel periodo ero un fan di Patti Smith. Volevo sposarla e mi piaceva anche fisicamente! Seguivo Springsteen, Dylan e Lou Reed… ma scrivevo jazzisticamente”.


    1983, S.Caputo, Ed. Mascheroni/Idiosyncrasy

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Caputo non è l’unico in Europa che ha ‘voglia di swing’: l’inglese Joe Jackson, gettate le chitarre rock dei suoi primi dischi, ha pubblicato proprio in quel periodo un disco di brani anni ’40 intitolato “Jumpin’ jive”, e a metà anni ’80 il fascino discreto del jazz sedurrà molti tra coloro che non credono più nel punk (come gli Style Counci di Paul Weller, ex arrabbiato nei Jam) o che
non sono soddisfatti del pop elettronico (da Carmel a Matt Bianco fino a Sade).

Un particolare che molti ignorano è che Caputo compone alla chitarra (“e non al piano, che non so suonare”). Per accompagnare le sue canzoni, sogna una big band, ma ovviamente non può contare sul budget necessario. Ragion per cui, i fiati di “Un sabato italiano” vennero simulati in modo piuttosto avventuroso con dei sintetizzatori avanzatissimi per l’epoca ma che, ascoltati oggi, risultano molto datati. Eppure, curiosamente, conferiscono al brano un sound alieno, in un certo senso lunare: dice Caputo: “A parte il piccolo fatto che riascoltando adesso il brano non li sopporto, tutto sommato quei synth finirono per caratterizzare il brano in modo (ai tempi) innovativo. Probabilmente c'era anche l'inconscia convinzione che fare quel disco troppo ‘stilisticamente preciso’ sarebbe risultato in un manierismo".

Da segnalare qualche problema, in studio, anche per la batteria: “Dovemmo reinciderla tre volte. Sembrava che nessun batterista fosse in grado di azzeccare l'andazzo giusto. Alla fine la palma d'oro andò a Derek Wilson, batterista inglese che, nonostante anni di rock e il pop, si ricordava come suonare lo swing. Incredibilmente a nessuno (neanche a me), venne in mente di chiamare un batterista jazz”.